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On line to: 14.12.1999


Psicologia del lavoro.


Indice:

2- FRANCESCO ALBERONI (Psicologia del lavoro)
* Il vero abisso che esiste tra il bravo e il cattivo capo.
* Pochi ricercatori in Italia perché l'Università li mortifica .
* Come farsi ingannare nella scelta delle persone.
* Moderazione e rispetto dell’altro, qualità perdute .
* L’inganno delle lauree brevi e delle lezioni facili .
* Il capitalismo? E' alle corde perché ha perso la base etica.
* Arte e tecnologia, ecco la nostra doppia carta vincente.
* Chi agisce per invidia rinuncia a realizzare se stesso.
* Un genio è anche solitudine (e perfino ignoranza).
* Moderazione e rispetto dell’altro, qualità perdute .
* Il vero leader cerca sempre nuove strade e scommette sui giovani.
* I distruttori sono di quattro tipi, ecco come riconoscerli .
* Non copiate, per vincere bisogna essere creativi.
* Pochi ricercatori in Italia perché l'Università li mortifica.
* Come farsi ingannare nella scelta delle persone .
* E’ un pessimo capo quello che non elogia chi lavora bene .



4-Note sugli scritti qui contenuti.
* Note


Il vero abisso che esiste tra il bravo e il cattivo capo

Tratto dal Corriere della Sera, in data 2 dicembre 2002
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
www.corriere.it/alberoni

Nessuna impresa è mai fallita per colpa degli operai. Nessuna impresa è mai fallita - salvo situazioni particolarissime di aspri conflitti politici - per colpa dei sindacati. Le imprese falliscono perché l'imprenditore o i dirigenti che ne svolgono la funzione sono incapaci. Non sanno leggere lo spirito dei tempi, non sanno capire che cosa chiede il mercato, non sanno inventare i prodotti adatti, non sanno scegliere bene i propri collaboratori, non sanno motivare coloro che lavorano con loro. Oppure perché, anziché occuparsi del bene dell'impresa e del suo successo, si occupano dei loro affari, si fanno dominare dalle proprie ambizioni o dalla propria vanità. In università spesso sento ripetere che gli studenti sono svogliati, ignoranti, apatici, interessati solo a passare gli esami facendo il meno possibile. Ma basta che un professore con la passione del sapere e il gusto dell'insegnare li raccolga attorno a sé e risponda alle loro domande, ed ecco che i giovani si trasformano. Da apatici, distratti, svogliati, diventano avidi di sapere, avidi di capire. Domandano, discutono e dimenticano tutto il resto. Potresti continuare per ore ed ore. Lo vedo alla Scuola nazionale di cinema-Centro sperimentale di cinematografia di cui sono presidente. Quando insegna un grande produttore, un grande regista, un grande maestro della fotografia o del montaggio, sia lui che gli studenti perdono la nozione del tempo. Incominciano alle 2 del pomeriggio e continuano fino a sera. Lo squallore dell'università è la conseguenza di una riforma che sembra preoccupata che gli studenti imparino troppo. Guai se fate incontri fuori orario con loro per approfondire qualcosa di nuovo: superate il numero di crediti stabiliti per legge! Guai se date loro da leggere altri libri o da studiare più di un ben definito numero di pagine: proibito! Lo studente non deve superare un certo numero di ore di studio. Il risultato è che abbiamo professori svogliati e studenti fannulloni. La colpa è sempre del vertice, del capo. Chiunque abbia responsabilità di comando deve prendersi cura di coloro che dipendono da lui, capirli, conoscerli, rendersi conto dei loro problemi, delle loro preoccupazioni, dei loro sogni, dei loro ideali, delle loro frustrazioni. Ma anche saperli guidare controcorrente, stimolarli, spingerli a diventare più creativi, più attivi, più coraggiosi. Cosa possibile solo con l'esempio. Purtroppo esiste un vero e proprio abisso fra le qualità (spesso truffaldine) che servono a raggiungere il potere e quelle (sempre virtuose) che garantiscono il buon comando. Nello scorso secolo abbiamo visto arrivare al supremo potere personaggi mostruosi come Hitler, Stalin o Pol Pot e abbiamo visto finire in prigione o uccisi leader meravigliosi. Ancor oggi, non facciamoci illusioni, spesso nelle posizioni di potere arrivano personaggi squallidi, abili solo a muoversi nei meandri politici con menzogne, intrighi, corruzione, accordi mafiosi, ricatti. Quando costoro hanno raggiunto il vertice di una istituzione, le trasmettono una specie di lebbra. Come il bravo capo fa crescere i suoi collaboratori e li porta ad esprimere le loro migliori qualità, così il cattivo ne accentua i difetti e fa esplodere la loro malvagità. No, non sono gli operai a far andar male le imprese, gli studenti a degradare le scuole, gli impiegati le istituzioni. Sono i capi, con la loro inettitudine, il loro orgoglio, la loro avidità.


Pochi ricercatori in Italia perché l'Università li mortifica

Tratto dal Corriere della Sera, in data 20 gennaio 2003
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
www.corriere.it/alberoni

Il presidente della Repubblica, il ministro, i giornalisti, i professori si lamentano che in Italia, rispetto agli altri Paesi sviluppati, ci siano pochi «ricercatori». E tutti propongono di aumentarne il numero. Ma cosa significa «ricercatore» negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia? Uno che studia, che fa ricerca. E quindi sono «ricercatori» i giovani medici di Bethesda, ma anche i professori di Harvard, gli studiosi dell'Istituto Pasteur e i premi Nobel del Massachusetts institute of technology (Mit). Chi sono invece in Italia i «ricercatori»? Sono coloro che occupano l'ultimo gradino della scala gerarchica dell'Università. Il pubblico non sa che, dal punto di vista della carriera, in Italia non ci sono tante Università, ma Una Sola Immensa Università, esattamente come c'è un'unica Arma dei carabinieri. E, nell'Arma dei carabinieri, incominci come tenente, poi diventi capitano e così via fino a generale. Lo stesso nell'Università, dove incominci come ricercatore poi, con concorsi nazionali, diventi associato, infine ordinario. Il «ricercatore» occupa la posizione accademica più bassa, in cui nessuno vuol restare perché non conta nulla, lavora molto e, se non fa carriera, si sente un fallito. Il «ricercatore» ha perciò un unico sogno: smettere di esserlo e diventare professore. Ma come può diventarlo? Con l'appoggio di un «maestro». Il «maestro» è il padre-padrone dell'Università italiana, l'unico arbitro del successo dell'allievo, del suo reddito, della sua dignità, del suo destino. Se il maestro non fa parte di una potente cricca politico-accademica, se muore, se lo abbandona, l'allievo è finito, non farà più un passo in avanti. Fosse anche il più grande scienziato del mondo, non troverà un altro professore che lo aiuta. Perché tutti hanno già dei figli-allievi da spingere e non possono imbarcare i bastardi di un'altra covata. Chi non è nella lista deve andarsene. Può, naturalmente, emigrare negli Stati Uniti dove guardano alle capacità. Ma se l'allievo ha assoluto bisogno del maestro, il maestro ha assoluto bisogno dell'allievo. Perché nell'Università italiana tutto si fa con votazioni e, come in politica, comanda chi controlla più voti. Ciascun professore deve perciò mettere in cattedra il numero maggiore possibile di allievi che gli assicurino i voti sicuri grazie ai quali potrà avere un peso nella coalizione politico-accademica che controlla i concorsi. E se l'allievo è mediocre, addirittura incapace? Pazienza. L'importante è che ubbidisca, che voti come gli viene ordinato, che stia alle regole. L'Università italiana non è più, come era nel passato, il vertice dell'alta cultura e della scienza. E' massificata, burocratizzata, livellata. Salvo eccezioni, chi comanda non sono i grandi scienziati, gli studiosi di genio. Ma coloro che controllano i voti ed i concorsi, abili nel piazzare dappertutto i propri uomini. Gente con una mentalità più politica che scientifica. Certo, ci sono anche dei veri maestri che si prodigano per i giovani con talento e vocazione, ma sono sempre più frustrati. Di conseguenza, finché il sistema universitario italiano resterà così, tutto il denaro che il governo vi pomperà dentro, servirà solo ad aumentare il numero dei professori prodotti dall'infernale meccanismo elettorale. Non all'insegnamento di eccellenza, non al reclutamento degli studiosi di genio, che amano la scienza e sono destinati a fare grandi scoperte .


Come farsi ingannare nella scelta delle persone.

Tratto dal Corriere della Sera, in data 03 febbraio 2003
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
www.corriere.it/alberoni

Sapete perché tante cose vanno male nel mondo, perché troppo spesso posti di responsabilità, di potere nei governi, nei partiti, nelle imprese sono occupati da persone malvagie? Perché coloro che dovrebbero vigilare non vigilano, coloro che dovrebbero valutare non valutano, coloro che dovrebbero conoscere non conoscono, coloro che dovrebbero opporsi non si oppongono? C’è una regola fondamentale che ogni persona investita di responsabilità dovrebbe seguire nello scegliere un collaboratore, nell’assegnare un posto, una carica: informati su cosa ha fatto nel corso della sua vita. Studialo in modo approfondito, non basarti su ciò che dice di se stesso, sul modo in cui si presenta, perché la persona malvagia, quando è intelligente, ha una incredibile capacità di apparire amabile e di mentire su ciò che ha fatto e su ciò che intende fare. E non basarti neppure su quello che dicono i suoi amici e coloro che dipendono da lui. Perché ai primi ha nascosto le sue infamie, e gli altri, o li ha già comprati, o li tiene in pugno con la paura. L’unico modo per riconoscerla è ricostruire pazientemente che cosa ha fatto nel corso della sua vita interrogando chi l’ha vista all’opera, ascoltando i testimoni. Come in un processo. Scoprirete allora che questo personaggio tanto gentile, tanto perbene, tanto promettente, in tutti i luoghi in cui è stato ha creato disastri, ha compiuto infamie ed è ricordato con orrore. I tedeschi che hanno eletto Hitler cancelliere non hanno fatto questa indagine, nemmeno il presidente Hindenburg. Non hanno avuto il coraggio, la voglia, o l’onestà di andare a vedere il suo tentativo di colpo di Stato a Monaco. Non hanno voluto guardare il modo in cui governava il suo partito, la brutalità delle sue SA e delle sue SS, e che razza di personaggi fossero i suoi collaboratori più fidati. Se avessero perlomeno letto il suo libro Mein Kampf , avrebbero capito che era una personalità paranoide, spietata. Invece si sono fatti abbagliare delle sue parole. Questa è stata la colpa della Germania e dei suoi politici. Lenin aveva studiato Stalin e aveva capito che costituiva un pericolo. Se non fosse morto così presto, l’avrebbe fermato. Ma i suoi, anche se avvertiti, non gli hanno creduto e Stalin li ha sterminati tutti. Shakespeare conosceva questo tipo di persone intelligenti e perverse, e ce le ha descritte. Come Riccardo III che, nonostante tutte le infamie compiute, trova sempre gente che non vede, non vuol vedere, fino a lasciarlo salire sul trono. Sono coloro che governano gli Stati, i partiti, le grandi istituzioni che, con le loro scelte, costruiscono la classe dirigente del Paese, cioè l’insieme delle persone che lo fa concretamente funzionare. Il valore di una élite politica si misura dalla capacità di reclutare e di formare una classe dirigente di altissimo livello. Se non sa farlo, se non sa scartare gli incapaci, i disonesti e i corrotti, il suo destino è inesorabilmente segnato. Nessun grande generale, né Alessandro né Cesare né Napoleone, avrebbe potuto vincere le guerre se non avesse saputo scegliere bene i suoi generali e questi, a loro volta, i loro ufficiali. Quando vedete che i capi, per negligenza, per opportunismo, per spirito di confraternita, non fanno quest’esame accurato dei loro collaboratori e tollerano o addirittura promuovono persone malvagie e moralmente corrotte a posti di responsabilità, vuol dire che sono inferiori al loro compito e che sono destinati a cadere.


Moderazione e rispetto dell’altro, qualità perdute

Tratto dal Corriere della Sera, in data 17 marzo 2003
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
www.corriere.it/alberoni

C’è una radicale differenza fra l’imprenditore e il politico, fra la concorrenza e la lotta politica. Che cosa fa l’imprenditore? Scopre, intuisce quali sono i bisogni potenziali del pubblico e inventa beni e servizi per soddisfarli. Pensiamo a un prodotto come la Nutella. Il cioccolato o i suoi surrogati venivano venduti in barrette. Ferrero inventa un prodotto che può essere spalmato sul pane e fa la felicità delle mamme e dei bambini. Il successo dell’imprenditore dipende da ciò che offre in quel momento sul mercato, e che il consumatore valuta istantaneamente. Non dipende da programmi o promesse per il futuro. Il politico, invece, per avere successo, per ottenere il voto dei cittadini, deve fare programmi e promesse e deve apparire credibile come persona o come partito. Nello stesso tempo deve convincere gli elettori che i suoi avversari agiscono male e soprattutto che non meritano fiducia, che non meritano credito, che non valgono nulla. Di qui la differenza fra pubblicità e propaganda politica. La pubblicità parla solo del prodotto, lo valorizza, ne suscita il desiderio, ne esalta le qualità. Ma non coinvolge mai la persona del concorrente, non ne mette in discussione la moralità. La propaganda politica invece ha come oggetto proprio la persona dell’avversario, la sua capacità, la sua attendibilità, la sua onestà, la sua moralità. Il linguaggio della lotta politica è essenzialmente un linguaggio morale. Ma, nello stesso tempo, è l’opposto della morale perché ne ignora i due elementi base: la veridicità e l’imparzialità. Per dare un corretto giudizio morale devi studiare i comportamenti e le intenzioni di una persona senza sapere se è dalla tua parte o da quella dell’avversario, se è amico o nemico. Nella politica, invece, prima devi sapere da che parte sta. Poi elogi tutto ciò che fanno i «tuoi» e attribuisci loro ogni virtù, mentre critichi tutto ciò che fanno gli «altri» e sostieni che non hanno né qualità morali né intellettuali per fare bene nel futuro. Questo modo di agire non deriva dalla malvagità dei politici, ma dal fatto che la politica appartiene alla stessa famiglia della guerra. Von Clausewitz ha scritto che la guerra è la politica condotta con altri mezzi. Allo stesso modo si può dire che la politica è una guerra condotta con altri mezzi. Quando la lotta politica si inasprisce, le accuse diventano feroci: il nemico diventa un farabutto, un ladro, un disonesto, un criminale, un mostro. E vengono usati menzogne, imboscate, attacchi alla persona, linciaggi morali. Fino all’uccisione fisica, fino alla guerra civile. La democrazia e la vita ordinata sono possibili solo se la lotta politica non prevale sulle altre dimensioni dell’esistenza, sugli altri valori. Se la gente resta capace di valutare con obiettività ciò che è fatto bene e ciò che è fatto male. Se resta capace di dare un giudizio morale sereno, obiettivo, non condizionato dalla passione di parte. Montesquieu, nel suo fondamentale libro Lo spirito delle leggi , ci ha insegnato che, per la vita civile e il buon governo, è fondamentale la moderazione. E sono le élites , soprattutto le élites culturali che hanno il dovere di insegnarla, prima di tutto con il loro esempio.


L’inganno delle lauree brevi e delle lezioni facili

Tratto dal Corriere della Sera, in data 10 marzo 2003
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
www.corriere.it/alberoni

Mi rivolgo a tutti i giovani che si accingono ad andare all’università. Se volete capire voi stessi, il mondo in cui vivete, fare carriera, avere stabile successo, tornate agli studi classici, alle facoltà di lettere, di lingue e letteratura, alla filosofia. E se fate economia o ingegneria, o medicina, non limitatevi alla vostra specialità, allargate la mente con altre letture, con altri corsi. Leggete romanzi, libri di storia, di filosofia, di sociologia, guardate i grandi film. Seguite le lezioni dei professori più bravi, più profondi, anche se all’inizio fate fatica a capire, anche se dovete studiare di più delle mille e cinquecento ore globali che la riforma vi chiede di non superare. Ignorate questa legge, studiate di più. Imparate a ragionare, ad argomentare. Non fatevi abbagliare dai corsi di laurea più moderni, dalle specialità della comunicazione, pensando di diventare dei giornalisti famosi, dei cineasti di fama mondiale, dei manager che sanno creare e dirigere grandi imprese. Le lauree triennali della riforma Berlinguer- Moratti, copiata sul modello anglosassone, vi daranno soltanto una informazione di base. Consentitemi di essere franco: uscite ignoranti dai licei e dagli istituti. Non conoscete l’italiano, la letteratura, la storia, la filosofia, la matematica. Non conoscete né la nostra cultura né i grandi filoni della cultura mondiale. I professori più preparati, quando vi sentono parlare, restano smarriti perché si accorgono che non avete nemmeno il vocabolario per capire che cosa dicono. E perciò molti di loro se ne vanno a un corso di livello superiore. Chi resta, spesso si rassegna a tenere lezioni piatte, elementari. Alcuni, per risparmiare tempo e fatica, non si confrontano mai con voi faccia a faccia in un esame orale. Vi fanno un test in cui i migliori non potranno mai dimostrare il proprio valore. Queste lauree triennali non sono vere lauree, le chiamano così perché la gente vuole il titolo di «dottore» ma, in realtà, spesso sono solo dei diplomi professionali. E non lasciatevi nemmeno abbagliare dal facile successo della televisione. È una strada dove contano molto le conoscenze, i giochi politici. Naturalmente è importante il talento, è possibile un improvviso successo. Che però spesso è effimero. Tutti elogiano la scienza e la tecnologia occidentali. Ma, nella scienza, i progressi sono dovuti a grandi scienziati che dedicano tutta la vita allo studio e hanno una visione filosofica dell’esistenza. Nella tecnica invece, molti, come diversi manager, sono solo specialisti senza radici culturali, senza spessore, ciechi e sordi a tutto ciò che sta oltre il loro laboratorio. Non capiscono le conseguenze di ciò che fanno. Agiscono come un muratore che lavora a un edificio che non sa a che cosa serva. Così, quando nascono questioni complesse, non le sanno affrontare. Il risultato sono i disastri ecologici, economici, politici. L'Occidente sta subendo un declino culturale. Supertecnico, superspecializzato, affonda nelle chiacchiere e nell’ignoranza. Non fatevi trascinare dalla corrente, cercate almeno voi di porre un freno a questa deriva.


Il capitalismo? E' alle corde perché ha perso la base etica

Tratto dal Corriere della Sera, in data 12 agosto 2002
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
www.corriere.it/alberoni

In questi ultimi tempi siamo stati tutti colpiti dai processi speculativi che hanno travolto la new economy . E turbati dal comportamento di molti manager che, anziché curare il successo dell’impresa e fare buoni prodotti per i consumatori, hanno usato il proprio potere per arricchirsi personalmente, arrivando a falsificare i bilanci. Mai come questa volta la crisi economica nasce dalla mancanza di quella moralità che ha consentito al capitalismo di crescere, al mercato di funzionare. Il capitalismo infatti è possibile solo su una rigorosa base etica. Dovremmo saperlo bene noi italiani, perché le istituzioni capitalistiche e il mercato sono nati proprio nel nostro Paese, a Venezia, a Milano, a Firenze e non sarebbero prosperate se le corporazioni non avessero imposto regole rigorose, e la Chiesa non avesse elaborato e insegnato una solida morale economica. Ce lo ricorda uno studioso di San Tommaso, Paolo Del Debbio, nel suo libro Global. La morale cristiana medioevale indica con precisione come far funzionare la concorrenza e il mercato: non agire in modo fraudolento, non fare patti segreti, mantenere la parola data, non cambiare le regole del gioco, garantire, sotto il controllo delle corporazioni, la qualità e il prezzo giusto al consumatore. Nel 1500 Leon Battista Alberti descriveva, due secoli prima di Benjamin Franklin, i fondamenti etici della personalità dell’imprenditore: vigilanza, correttezza, rigore. E regole non molto diverse possono essere trovate nel Talmud. È grazie ad esse che le comunità ebraiche hanno saputo svolgere la loro importante funzione economica. Su questa tradizione si sono abbattute due bufere. La prima è stata il marxismo. Per il marxismo non c’è differenza fra imprenditore, finanziere, speculatore e imbroglione. Tutto è sfruttamento, tutto è male. Non c’è una morale economica, ma solo una morale politica. È bene solo quello che serve alla mia parte politica. Queste idee, nei Paesi comunisti, hanno distrutto totalmente il substrato morale del mercato. Con il risultato che oggi, nel momento in cui vorrebbero mettere in moto l’imprenditorialità e la concorrenza, si trovano di fronte a disonestà, corruzione e mafia. La seconda forza che si è abbattuta sulla tradizione morale dell’Occidente è il relativismo culturale. Che non si limita a dire che tutte le culture hanno uguale dignità. Ma che non esiste nessun principio morale universale, che una civiltà non deve avere un corpo comune di valori e di costumi. Che a scuola non si deve insegnare il comportamento morale perché è prevaricare la spontaneità e la libertà istintuale. Adam Smith, accanto al suo testo fondamentale di economia, ha scritto il Trattato sui sentimenti morali . Ma oggi nelle scuole di economia non si insegna il comportamento morale, non si plasma la personalità morale. Nelle imprese e nelle istituzioni vengono tollerati comportamenti che, in un’altra epoca, avrebbero comportato l’espulsione dalla comunità. Il consumatore è raggirato con l’obsolescenza programmata dei prodotti, l’azionista derubato dalle manovre degli amministratori. Fra i giovani aspiranti manager si è diffusa una mentalità avida e cinica. Conclusione? Bisogna tornare a solidi principi. Non bastano le sponsorizzazioni delle attività non profit o umanitarie a salvarci. È nella vita concreta, nei comportamenti di ogni giorno che dobbiamo scegliere il bene e condannare il male. E compiere una ricostruzione morale dal basso, dai primi anni dell’infanzia, dai banchi della scuola, fino all’università.


Arte e tecnologia, ecco la nostra doppia carta vincente

Tratto dal Corriere della Sera, in data 16 dicembre 2002
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
www.corriere.it/alberoni

La crisi della Fiat mette in evidenza una malattia che sta insidiando il sistema produttivo italiano: la perdita della qualità. Ho detto qualità e non competitività come si ripete spesso. Io posso essere competitivo riducendo la qualità ed abbassando il prezzo. E' una strada che seguono molti Paesi in via di sviluppo. Ma i Paesi più sviluppati devono cercare di crescere facendo prodotti che gli altri non fanno e non possono fare. Gli Stati Uniti ci riescono grazie ai grandi centri di ricerca, la creazione di brevetti, l'enorme anticipo che hanno accumulato nel campo dei computer, della genetica, delle biotecnologie, dell'informazione, del cinema dove impongono dappertutto i loro prodotti e dove sono all'avanguardia nella rivoluzione digitale. Noi italiani dobbiamo agire nello stesso modo nei settori in cui siamo più dotati. E' quanto abbiamo fatto negli ultimi decenni nel campo del gusto, dello stile di vita. L'esempio più importante è quello dell'industria della moda. Negli anni Settanta avevamo buoni produttori di tessuti, ottimi sarti, stupendi artigiani, ma la moda la facevano Parigi, l'Inghilterra e perfino gli Usa. Poi abbiamo reagito. I tessutai di Biella, i setaioli di Como, hanno fatto investimenti nel campo artistico, tecnologico e promozionale. Sono emersi gli stilisti: Armani, Versace, Krizia, Trussardi che si sono affiancati a nomi celebri come Capucci. Abbiamo inventato il vestito pronto, il prét-à porter, e Milano è diventata la capitale della moda. Poi ci siamo affermati negli accessori, negli occhiali, nei profumi, nell'arredamento, nel cibo con la dieta mediterranea e la ristorazione. Cioè con quanto è connesso al bello, al comfort. Negli anni Ottanta il gusto italiano si è imposto in tutto il mondo. Ma attenti, questo risultato è stato ottenuto combinando quattro fattori: una grande creatività, una elevata ricerca tecnologica che ci teneva all'avanguardia, la cura rigorosa della qualità e la capacità di mettere a frutto le nostre risorse artigianali. Nel campo dell'automobile ha agito nello stesso modo Luca di Montezemolo portando al successo sportivo ed economico la Ferrari. Purtroppo la Fiat non ha mantenuto lo stesso livello e i suoi prodotti sono stati soppiantati da altri di qualità superiore. Ma la sua crisi è il sintomo di una malattia più estesa. Molte ditte trasferiscono le loro produzioni all'estero dove la manodopera costa meno. E,così facendo, investono meno in innovazione tecnologica in Italia, l'arma con cui sono sempre stati all'avanguardia, e ne soffre la qualità. Scompaiono i nostri grandi artigiani. I giovani escono dall'università con poca cultura e senza le abilità dei genitori. Gli stilisti hanno difficoltà a trovare bravi sarti e sarte, scarseggiano i maestri della pelle, gli orafi, a Murano i maestri vetrai, e così in tutti i campi. E noti va meglio nella ricerca avanzata. Troppi professori universitari sono più occupati a mettere in cattedra gli allievi portaborse, con cui aumentano il proprio potere, che a valorizzare i ricercatori di genio. E la riforma annunciata rischia non di migliorare, ma di peggiorare la situazione. Il valore, l'eccellenza, la qualità, la combinazione di arte e scienza, fare ciò che gli altri non fanno, che non sanno fare, puntare su ciò cheti rende. unico, che spinge la gente a cercarti: questa, per un Paese come il nostro, è la sola arma vincente. Se lu perdiamo, se ci accontentiamo, se ci livelliamo, siamo perduti.


Chi agisce per invidia rinuncia a realizzare se stesso

Tratto dal Corriere della Sera, in data 16 ottobre 2002
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
www.corriere.it/alberoni

Il merito di una persona non viene riconosciuto, ma anzi, vilipeso, in tre casi. Quando ciò che essa dice è in contrasto con la concezione scientifica o ideologica dominante. Quando il suo successo urta gli interessi politici o economici di un gruppo potente. Infine per invidia. Un esempio del primo tipo è quello di Galileo, che metteva in crisi gli aristotelici. Un altro l'ostracismo dato per molto tempo a Pasteur perché, con la sua concezione dei microbi, svalutava il pensiero degli scienziati del suo tempo. Ancora più numerose le ingiustizie compiute dai gruppi politici. Per esempio la condanna della psicoanalisi fatta da Hitler perché la considerava una scienza ebraica. Oppure il caso dei nostri critici di sinistra che condannavano tutti i film di Hollywood. Come esempio di interesse economico, ricordiamo che gli americani ancora oggi favoriscono sfacciatamente solo i loro scrittori ed il loro cinema, e non lasciano nessuno spazio ai concorrenti. Si tratta di meccanismi collettivi in cui il gruppo, scientifico, ideologico, o economico, difende il suo potere contro una sfida esterna. L'invidia invece è individuale. Essa nasce dal nostro desiderio di avere un valore. E il valore ce lo possono dare solo gli altri con i loro elogi, il loro applauso, il loro premio. Quando vediamo che viene premiato qualcun altro al nostro posto ci restiamo male, soffriamo. Soprattutto se svolge la nostra stessa attività e non ci sembra molto diverso da noi. Allora non possiamo evitare di domandarci: perché lui sì ed io no? Finora però non c'è invidia. L'invidia nasce quando noi sentiamo che l'altro, anche se ci dispiace, anche se ci fa rabbia, vale veramente, e che la giuria ha ragione. Ma non vogliamo ammetterlo e cerchiamo ad ogni costo di abbatterlo, di sconfiggere il giudizio della società. Ci convinciamo e cerchiamo di convincere gli altri che non vale nulla e lo facciamo in modo tanto più ossessivo e cattivo quanto più sappiamo che stiamo mentendo. Ne parliamo male, lo denigriamo, gli facciamo del male. L'invidia, non è solo un sentimento, è un’azione cattiva. L'invidia, perciò, si rivolge inesorabilmente verso tutti coloro che sono dotati e tende a frenarli. In ogni impresa ci sono colleghi che, anziché collaborare fra loro, si ostacolano e si danneggiano. Esistono insegnanti invidiosi degli allievi, dirigenti invidiosi dei loro collaboratori più bravi, editori che ostacolano i loro scrittori. Attorno ad ogni leader politico, ad ogni artista affermato, troviamo persone che lo invidiano in modo feroce. Per questo chi ha ricevuto grandi doti ha bisogno, soprattutto da giovane, di qualcuno che lo protegga dall’azione devastante dell’invidia altrui. All’inizio abbiamo detto che il merito non viene riconosciuto in tre casi: quando ostacola un modo diffuso di pensare, quando danneggia gli interessi di un gruppo potente e, infine, nell’invida. I primi due casi, sebbene ingiusti e socialmente dannosi, sono comprensibili dal punto di vista dell’interesse egoistico. La gente difende le proprie convinzioni e le proprie abitudini. I gruppi politici esaltano gli amici e cercano di indebolire i nemici. Quelli economici combattono la concorrenza. Ma l’invidioso cosa ci guadagna? Niente. Abbacinato dalla persona che invidia, non fa che pensare a lei, si rode il fegato, sta male. Spreca la sua vita in azioni meschine, passa il suo tempo a denigrarla, danneggiarla. E così rinuncia a realizzare se stesso, ad inventare, a creare.


Un genio è anche solitudine (e perfino ignoranza)

Tratto dal Corriere della Sera, in data 17 febbraio 2003
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
www.corriere.it/alberoni

Ho sempre ammirato le dinastie industriali e artistiche dove il possesso di una capacità, di un’eccellenza si trasmette di generazione in generazione. Dove fin da bambino l'individuo si trova circondato da esempi e da maestri che coltivano le sue possibilità e lo aiutano a valorizzarle nel mondo, in un sistema di aiuto reciproco, di amicizie, di relazioni consolidate. E' stato il padre di Mozart, buon musicista, a educare e a valorizzare il figlio. Abbiamo illustri famiglie di imprenditori come gli Agnelli, di scienziati come gli Huxley, di artisti di teatro come i De Filippo, di attori e registi cinematografici come i Douglas. Anche in Italia i «figli d'arte» sono numerosi. Salvo eccezioni, è però difficile che in una dinastia il figlio o il nipote abbia le stesse qualità del fondatore. Sembra strano, anche per il fatto che i membri dell’ élite si sposano fra di loro e i figli ereditano patrimoni genetici pregiati. Tutto questo assicura un livello medio elevato, degli ottimi professionisti, ma non è la nascita del genio che crea il totalmente nuovo. Ho in mente uno dei rari imprenditori che hanno creato personalmente prodotti di successo internazionale, dei veri e propri miti. I suoi figli, i suoi nipoti potranno essere preparati, bravissimi, ma non raggiungeranno mai, mai più, il suo livello sublime. Il genio che crea ciò che è assolutamente nuovo, sprigiona dal nulla come un lampo, folgorante e imprevedibile. Marconi non è un diligente allievo di Hertz, è un ragazzo con una preparazione fisico-matematica limitata che riesce a vedere ciò che Hertz e i suoi non vedono proprio perché non sta con loro e osserva le cose in modo diverso da loro. Anche Einstein è un marginale che, proprio perché non segue la corrente, pensa ciò che gli altri non avrebbero mai potuto pensare, l'impensabile. Freud irrompe nel suo tempo come un alieno. E anche nel campo artistico quali scuole, quali precedenti familiari hanno Chaplin, o Totò, o Disney? Escono dal niente, combinazione misteriosa di cromosomi, di esperienze vitali e di circostanze storiche. Tanto fuori dalle regole che gli intellettuali e i critici per molto tempo li disprezzano, li considerano fenomeni da baraccone. I sapienti hanno impiegato sessant'anni per accettare Freud, i critici cinematografici altrettanto tempo per capire che Disney era uno dei geni del ventesimo secolo. Ma c'è di più. E' molto difficile che un individuo preparatissimo, informatissimo, un allievo diligente delle migliori scuole inventi qualcosa di rivoluzionario. Scriverà libri pregiati, riceverà premi, encomi, lauree honoris causa , ma non lascerà mai una traccia indelebile nella mente degli uomini, qualcosa con cui essi si troveranno sempre alle prese, perché nessuno l'aveva pensata, nessuno l'aveva detta. Certo, lo studioso, l'artista ha bisogno di scuole, di maestri, ma ha bisogno anche di solitudine, arriverei a dire di ignoranza. C'è un momento in cui deve allontanarsi dagli altri, non guardare dove guardano loro, non discutere ciò che essi discutono, non cercare i loro applausi. Perché, se tutti discutono e parlano di una cosa, vuol dire che è già nota. Il genio deve utilizzare tutte le conoscenze, ma poi seguire il misterioso sentiero che lui solo vede e accettare di essere guardato con sufficienza e diffidenza, perché non fa parte integrante del sistema consolidato. E sapere che, talvolta anche per tutta la vita, non verrà mai capito fino in fondo.


Moderazione e rispetto dell’altro, qualità perdute

Tratto dal Corriere della Sera, in data 17 marzo 2003
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
www.corriere.it/alberoni

C’è una radicale differenza fra l’imprenditore e il politico, fra la concorrenza e la lotta politica. Che cosa fa l’imprenditore? Scopre, intuisce quali sono i bisogni potenziali del pubblico e inventa beni e servizi per soddisfarli. Pensiamo a un prodotto come la Nutella. Il cioccolato o i suoi surrogati venivano venduti in barrette. Ferrero inventa un prodotto che può essere spalmato sul pane e fa la felicità delle mamme e dei bambini. Il successo dell’imprenditore dipende da ciò che offre in quel momento sul mercato, e che il consumatore valuta istantaneamente. Non dipende da programmi o promesse per il futuro. Il politico, invece, per avere successo, per ottenere il voto dei cittadini, deve fare programmi e promesse e deve apparire credibile come persona o come partito. Nello stesso tempo deve convincere gli elettori che i suoi avversari agiscono male e soprattutto che non meritano fiducia, che non meritano credito, che non valgono nulla. Di qui la differenza fra pubblicità e propaganda politica. La pubblicità parla solo del prodotto, lo valorizza, ne suscita il desiderio, ne esalta le qualità. Ma non coinvolge mai la persona del concorrente, non ne mette in discussione la moralità. La propaganda politica invece ha come oggetto proprio la persona dell’avversario, la sua capacità, la sua attendibilità, la sua onestà, la sua moralità. Il linguaggio della lotta politica è essenzialmente un linguaggio morale. Ma, nello stesso tempo, è l’opposto della morale perché ne ignora i due elementi base: la veridicità e l’imparzialità. Per dare un corretto giudizio morale devi studiare i comportamenti e le intenzioni di una persona senza sapere se è dalla tua parte o da quella dell’avversario, se è amico o nemico. Nella politica, invece, prima devi sapere da che parte sta. Poi elogi tutto ciò che fanno i «tuoi» e attribuisci loro ogni virtù, mentre critichi tutto ciò che fanno gli «altri» e sostieni che non hanno né qualità morali né intellettuali per fare bene nel futuro. Questo modo di agire non deriva dalla malvagità dei politici, ma dal fatto che la politica appartiene alla stessa famiglia della guerra. Von Clausewitz ha scritto che la guerra è la politica condotta con altri mezzi. Allo stesso modo si può dire che la politica è una guerra condotta con altri mezzi. Quando la lotta politica si inasprisce, le accuse diventano feroci: il nemico diventa un farabutto, un ladro, un disonesto, un criminale, un mostro. E vengono usati menzogne, imboscate, attacchi alla persona, linciaggi morali. Fino all’uccisione fisica, fino alla guerra civile. La democrazia e la vita ordinata sono possibili solo se la lotta politica non prevale sulle altre dimensioni dell’esistenza, sugli altri valori. Se la gente resta capace di valutare con obiettività ciò che è fatto bene e ciò che è fatto male. Se resta capace di dare un giudizio morale sereno, obiettivo, non condizionato dalla passione di parte. Montesquieu, nel suo fondamentale libro Lo spirito delle leggi , ci ha insegnato che, per la vita civile e il buon governo, è fondamentale la moderazione. E sono le élites , soprattutto le élites culturali che hanno il dovere di insegnarla, prima di tutto con il loro esempio.


Il vero leader cerca sempre nuove strade e scommette sui giovani

Tratto dal Corriere della Sera, in data 18 novembre 2002
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
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Una delle qualità più importanti per un leader, sia esso un imprenditore, il direttore generale di un’impresa, il presidente di un ente, il comandate di una formazione militare, è il coraggio. Cioè la capacità di affrontare i problemi, i conflitti, le difficoltà, il rapporto con gli altri esseri umani apertamente, assumendo fino in fondo la responsabilità delle proprie azioni. Capita però con una certa frequenza di trovare alti dirigenti, anche competenti, onesti, corretti, ma che ne hanno poco. Vorrebbero fare, ma la paura li porta a evitare tutto ciò che è rischioso e sgradevole, lasciando che l’affrontino gli altri, così da non esserne considerati responsabili. Nel mondo moderno, qualunque impresa, qualunque istituzione ha bisogno di innovazione, di cambiamenti. Il vero leader esplora continuamente nuove possibilità, raccoglie informazioni, ascolta i pareri degli esperti, progetta senza posa nuove attività. Ne avvia l’esecuzione, prova e riprova. Il capo privo di coraggio, invece, ha paura dei cambiamenti, non li progetta e non li propone Non gli sentirete mai dire che si potrebbe lanciare un nuovo prodotto, avviare un investimento produttivo. E se lo fa qualcun altro, scuote la testa, avanza riserve, dubbi. Perché non si sa mai, qualcosa potrebbe non funzionare, andar male. E non vuol prenderne la colpa. Il vero leader sa che il suo compito è scoprire nuove strade. Poi, identificata la meta, ritiene suo dovere additarla a tutti, spiegare loro la strategia perché si sentano stimolati a realizzarla dando il meglio di sé, con entusiasmo. Il dirigente insicuro, invece, si rinchiude in se stesso e tiene addirittura nascoste le informazioni. Il vero leader vuole attivare nei suoi dirigenti, nei suoi collaboratori la creatività, l’iniziativa. Li spinge ad andare avanti, li lascia liberi di tentare e li giudica soltanto dopo che ha visto i risultati. Il capo pauroso, invece, ha paura che possano prendere iniziative nuove e ardite. Impedisce loro di muoversi, li controlla continuamente. Vuol sapere sempre che cosa stanno facendo, li tiene con sé per ore in riunioni-fiume. Ricordo un vecchio professore che ci parlava per mezza giornata di personaggi che aveva conosciuto nel passato. E con questo sfibrante amarcord otteneva lo scopo di rassicurare se stesso e di bloccare o rimandare le decisioni. Il vero leader ama il contatto umano. Vuole confrontarsi con gli altri, dire ciò che pensa, ascoltare le loro obiezioni, rispondere argomentando, convincendo. Se deve prendere una decisione riguardo a un suo dipendente, lo chiama, gli spiega chiaramente il motivo della sua scelta nel quadro della strategia complessiva, e chiede la sua collaborazione. Il dirigente pauroso, invece, non se la sente di confrontarsi razionalmente ed emotivamente con un altro essere umano. Gli comunica la sua decisione per iscritto o gliela fa dire da un altro. Il vero leader, infine, ha fiducia nei giovani. Soprattutto quando sono intelligenti, entusiasti, dinamici. Il capo insicuro, al contrario, li teme, considera il loro slancio, la loro energia una forma di sconsideratezza. Perciò non resiste all’impulso di rimproverarli per piegare la loro volontà, farli desistere. Ma, poiché il mondo si trasforma in modo vertiginoso, i capi insicuri corrono il rischio di isolarsi progressivamente dai creatori, dagli innovatori. E più si sentono isolati, più pensano che il mondo sia in mano ai pazzi .


I distruttori sono di quattro tipi, ecco come riconoscerli

Tratto dal Corriere della Sera, in data 18 ottobre 2002
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
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Ci sono delle persone che hanno il dono di costruire ed altre che hanno il dono di distruggere. Le prime, dovunque vadano, qualunque compito venga loro affidato, si gettano nella nuova intrapresa con entusiasmo e pensano solo a creare, costruire, migliorare. In poco tempo fanno prosperare l'istituzione e i rapporti al suo interno. Con il loro slancio contagiano i collaboratori e li fanno sentire partecipi di una meta comune. Poiché hanno un grande rispetto per ogni essere umano, li aiutano a scoprire e a mettere a frutto le loro migliori qualità. Con la loro moralità risvegliano anche in loro la forza morale, il coraggio di resistere alle avversità, di dire la verità, di essere obiettivi. Essi sono perciò, a un tempo, costruttori di istituzioni e costruttori di uomini. Quando muoiono o se ne vanno lasciano imprese fiorenti e gente più forte che porta nel cuore un ideale. All'altro estremo vi sono i distruttori di istituzioni e di uomini. Ne ricorderò alcuni tipi. Il primo è il fanatico. Il fanatico odia e condanna le persone non per quello che fanno, ma per l'etichetta politica, religiosa o razziale che portano. Non vuole costruire, vuole distruggere. E lo fa con tanta maggior ferocia quanto più l'altro ha valore. Vi sono politici, intellettuali, giudici fanatici. Vi sono partiti e movimenti fanatici. Tutti hanno lasciato dietro di sé solo rovine materiali e morali. In un Paese la diffusione della mentalità fanatica produce danni enormi: paralizza le intelligenze e genera in tutti un senso di pericolo e di ingiustizia. Il secondo tipo di distruttore è il vile. Il vile non ha autonomia di giudizio. Non ha il coraggio di distinguere il bene dal male. Pensa solo a sopravvivere, a galleggiare. Si conforma al parere degli altri, del gruppo di cui fa parte, di chi comanda, e finisce per fare tutto quello che gli chiedono di fare, anche mentire, tradire gli amici. A seconda del padrone che trova, può restare un semplice conformista, diventare un lacché e perfino un killer. Il terzo tipo è costituito dai distruttori ideologici, i critici-critici, i cinici, che non hanno valori e che non vogliono vedere valori attorno a sé. Si irritano a sentire parlare di forza morale o di dignità. Hanno fatto di tutto per distruggere le basi della famiglia, della fiducia dei figli nei genitori, sbeffeggiano e deridono le virtù che tengono unita la società. Convinti di essere superiori a tutto e a tutti, sono sarcastici, brillanti, capaci di sedurre i deboli e i conformisti. Vi sono infine le persone avide, assatanate di denaro e di potere che, per raggiungere i loro scopi, utilizzano qualsiasi mezzo: la menzogna, la corruzione, il ricatto. I finanzieri che mandano in malora una fiorente istituzione pubblica per farci una speculazione edilizia. I manager che hanno saccheggiato le proprie imprese e derubato gli azionisti. Gli imprenditori che ingannano i consumatori. I parassiti dello Stato. I predatori che si impadroniscono di una istituzione con l'inganno e, poiché poi sono incapaci di gestirla, la fanno andare in rovina. Infine gli speculatori capaci di fare una guerra per vendere armi. In un’epoca come questa di crisi, di paura, di droga, dove tanta gente è smarrita e tanti giovani sono in pericolo, dobbiamo saper distinguere i costruttori dai distruttori. Poi appoggiare i primi, stringerci attorno a loro, e respingere, rifiutare, denunciare gli altri.


Non copiate, per vincere bisogna essere creativi

Tratto dal Corriere della Sera, in data 2 settembre 2002
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
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Siamo certamente in una fase di stagnazione economica e le risorse per fare ciò che desideriamo come individui o come collettività sono limitate. Possiamo lamentarci, protestare, scioperare, ma non risolviamo il problema. Che cosa fare allora? Per rispondere pensiamo a come ci siamo ripresi altre volte nel passato. Nel 1973 siamo stati travolti dalla crisi petrolifera. Però pochi anni dopo eravamo in ripresa. Ci siamo riusciti scoprendo i desideri potenziali del pubblico, inventando e comunicando. Allora è nata la moda italiana. Noi avevamo bravissimi sarti e sarte, stupendi artigiani. Ma la capitale indiscussa della moda era Parigi. Poi i tessutai e i produttori di seta si sono uniti, hanno fatto investimenti nella tecnologia, nella pubblicità, nelle sfilate. Sono subito emersi grandi stilisti come Armani, Versace, Krizia, Trussardi, che si sono aggiunti alle firme già famose, Valentino, Capucci, eccetera. Benetton ha conquistato il settore giovani. Conquistato il mercato interno, la moda italiana è dilagata all’estero. In poco tempo Milano è diventata la capitale mondiale della moda. E lo stesso processo si è ripetuto negli accessori, nelle calzature. Gli italiani facevano già le migliori scarpe del mondo, ma consideravano più prestigiose quelle inglesi. E’ stato Diego della Valle, con le Tod’s, a rovesciare la tendenza. Poi tutti i grandi stilisti hanno introdotto le scarpe nella loro offerta e oggi non c’è nessuno che metta in dubbio il primato italiano. Nel frattempo si affermavano l’oreficeria italiana di Valenza Po e di Arezzo, le piastrelle di Sassuolo, gli occhiali. Era nato l’ italian style . Ma non è finita. Gli italiani hanno affermato il loro primato anche nel campo del cibo. E’ stata propagandata la dieta mediterranea, e si sono affermati la cucina italiana, il ristorante italiano. Alcune grandi imprese alimentari si sono rinnovate. Ferrero, che durante la guerra aveva prodotto surrogati del cioccolato, doveva modificare la sua immagine. Ci è riuscita in pieno con «Mon Chéri» e la «Nutella». Così ha trionfato il made in Italy . C’è un solo settore in cui gli italiani non hanno recuperato e migliorato le posizioni perdute: il cinema. Le contestazioni del 1968 al festival di Venezia gli hanno inferto una ferita non ancora rimarginata. Il suo posto è stato preso da Cannes. Negli anni seguenti, in questo campo non hanno dominato gli imprenditori, ma gli intellettuali, preoccupati del livello culturale, dell’impegno sociale, ma meno sensibili alle esigenze del mercato. Nel vuoto si sono così inseriti Hollywood e la tv. Ma il ruolo della televisione non è stato solo negativo. Ha reso possibile una fiction di alto livello amata dal pubblico. Ricordiamo «Marco Polo», «La Piovra», fino ad arrivare a «Padre Pio» con Castellitto, a «Perlasca» e a «Maria Josè». Il suo successo dimostra che in Italia c’è un enorme pubblico potenziale che il cinema in senso stretto non ha ancora capito e conquistato. Molti italiani, aperti alla fiction, hanno pregiudizi verso il nostro cinema. Dobbiamo convincerli, cambiare il loro atteggiamento, come abbiamo fatto per le scarpe inglesi o la moda francese. Da queste osservazioni possiamo ricavare alcune regole per uscire dalla stagnazione. Non contare troppo sullo Stato, sui suoi aiuti. Lasciar perdere le speculazioni finanziarie. Agire da imprenditori. Conquistare il mercato interno: chi non è creduto nel suo Paese non riuscirà mai a esportare. Seguire la nostra vocazione, non scimmiottare nessuno. Puntare sulla qualità e il gusto. Ritrovare l’onestà. Mobilitare i nuovi ingegni e non aver paura della creatività. E così fino a quando non saremo tutti orgogliosi dei nostri prodotti e del nostro modo di vivere. Allora avremo vinto.


Pochi ricercatori in Italia perché l'Università li mortifica

Tratto dal Corriere della Sera, in data 20 gennaio 2003
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
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Il presidente della Repubblica, il ministro, i giornalisti, i professori si lamentano che in Italia, rispetto agli altri Paesi sviluppati, ci siano pochi «ricercatori». E tutti propongono di aumentarne il numero. Ma cosa significa «ricercatore» negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia? Uno che studia, che fa ricerca. E quindi sono «ricercatori» i giovani medici di Bethesda, ma anche i professori di Harvard, gli studiosi dell'Istituto Pasteur e i premi Nobel del Massachusetts institute of technology (Mit). Chi sono invece in Italia i «ricercatori»? Sono coloro che occupano l'ultimo gradino della scala gerarchica dell'Università. Il pubblico non sa che, dal punto di vista della carriera, in Italia non ci sono tante Università, ma Una Sola Immensa Università, esattamente come c'è un'unica Arma dei carabinieri. E, nell'Arma dei carabinieri, incominci come tenente, poi diventi capitano e così via fino a generale. Lo stesso nell'Università, dove incominci come ricercatore poi, con concorsi nazionali, diventi associato, infine ordinario. Il «ricercatore» occupa la posizione accademica più bassa, in cui nessuno vuol restare perché non conta nulla, lavora molto e, se non fa carriera, si sente un fallito. Il «ricercatore» ha perciò un unico sogno: smettere di esserlo e diventare professore. Ma come può diventarlo? Con l'appoggio di un «maestro». Il «maestro» è il padre-padrone dell'Università italiana, l'unico arbitro del successo dell'allievo, del suo reddito, della sua dignità, del suo destino. Se il maestro non fa parte di una potente cricca politico-accademica, se muore, se lo abbandona, l'allievo è finito, non farà più un passo in avanti. Fosse anche il più grande scienziato del mondo, non troverà un altro professore che lo aiuta. Perché tutti hanno già dei figli-allievi da spingere e non possono imbarcare i bastardi di un'altra covata. Chi non è nella lista deve andarsene. Può, naturalmente, emigrare negli Stati Uniti dove guardano alle capacità. Ma se l'allievo ha assoluto bisogno del maestro, il maestro ha assoluto bisogno dell'allievo. Perché nell'Università italiana tutto si fa con votazioni e, come in politica, comanda chi controlla più voti. Ciascun professore deve perciò mettere in cattedra il numero maggiore possibile di allievi che gli assicurino i voti sicuri grazie ai quali potrà avere un peso nella coalizione politico-accademica che controlla i concorsi. E se l'allievo è mediocre, addirittura incapace? Pazienza. L'importante è che ubbidisca, che voti come gli viene ordinato, che stia alle regole. L'Università italiana non è più, come era nel passato, il vertice dell'alta cultura e della scienza. E' massificata, burocratizzata, livellata. Salvo eccezioni, chi comanda non sono i grandi scienziati, gli studiosi di genio. Ma coloro che controllano i voti ed i concorsi, abili nel piazzare dappertutto i propri uomini. Gente con una mentalità più politica che scientifica. Certo, ci sono anche dei veri maestri che si prodigano per i giovani con talento e vocazione, ma sono sempre più frustrati. Di conseguenza, finché il sistema universitario italiano resterà così, tutto il denaro che il governo vi pomperà dentro, servirà solo ad aumentare il numero dei professori prodotti dall'infernale meccanismo elettorale. Non all'insegnamento di eccellenza, non al reclutamento degli studiosi di genio, che amano la scienza e sono destinati a fare grandi scoperte .


Come farsi ingannare nella scelta delle persone

Tratto dal Corriere della Sera, in data 3 febbraio 2003
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
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Sapete perché tante cose vanno male nel mondo, perché troppo spesso posti di responsabilità, di potere nei governi, nei partiti, nelle imprese sono occupati da persone malvagie? Perché coloro che dovrebbero vigilare non vigilano, coloro che dovrebbero valutare non valutano, coloro che dovrebbero conoscere non conoscono, coloro che dovrebbero opporsi non si oppongono? C’è una regola fondamentale che ogni persona investita di responsabilità dovrebbe seguire nello scegliere un collaboratore, nell’assegnare un posto, una carica: informati su cosa ha fatto nel corso della sua vita. Studialo in modo approfondito, non basarti su ciò che dice di se stesso, sul modo in cui si presenta, perché la persona malvagia, quando è intelligente, ha una incredibile capacità di apparire amabile e di mentire su ciò che ha fatto e su ciò che intende fare. E non basarti neppure su quello che dicono i suoi amici e coloro che dipendono da lui. Perché ai primi ha nascosto le sue infamie, e gli altri, o li ha già comprati, o li tiene in pugno con la paura. L’unico modo per riconoscerla è ricostruire pazientemente che cosa ha fatto nel corso della sua vita interrogando chi l’ha vista all’opera, ascoltando i testimoni. Come in un processo. Scoprirete allora che questo personaggio tanto gentile, tanto perbene, tanto promettente, in tutti i luoghi in cui è stato ha creato disastri, ha compiuto infamie ed è ricordato con orrore. I tedeschi che hanno eletto Hitler cancelliere non hanno fatto questa indagine, nemmeno il presidente Hindenburg. Non hanno avuto il coraggio, la voglia, o l’onestà di andare a vedere il suo tentativo di colpo di Stato a Monaco. Non hanno voluto guardare il modo in cui governava il suo partito, la brutalità delle sue SA e delle sue SS, e che razza di personaggi fossero i suoi collaboratori più fidati. Se avessero perlomeno letto il suo libro Mein Kampf , avrebbero capito che era una personalità paranoide, spietata. Invece si sono fatti abbagliare delle sue parole. Questa è stata la colpa della Germania e dei suoi politici. Lenin aveva studiato Stalin e aveva capito che costituiva un pericolo. Se non fosse morto così presto, l’avrebbe fermato. Ma i suoi, anche se avvertiti, non gli hanno creduto e Stalin li ha sterminati tutti. Shakespeare conosceva questo tipo di persone intelligenti e perverse, e ce le ha descritte. Come Riccardo III che, nonostante tutte le infamie compiute, trova sempre gente che non vede, non vuol vedere, fino a lasciarlo salire sul trono. Sono coloro che governano gli Stati, i partiti, le grandi istituzioni che, con le loro scelte, costruiscono la classe dirigente del Paese, cioè l’insieme delle persone che lo fa concretamente funzionare. Il valore di una élite politica si misura dalla capacità di reclutare e di formare una classe dirigente di altissimo livello. Se non sa farlo, se non sa scartare gli incapaci, i disonesti e i corrotti, il suo destino è inesorabilmente segnato. Nessun grande generale, né Alessandro né Cesare né Napoleone, avrebbe potuto vincere le guerre se non avesse saputo scegliere bene i suoi generali e questi, a loro volta, i loro ufficiali. Quando vedete che i capi, per negligenza, per opportunismo, per spirito di confraternita, non fanno quest’esame accurato dei loro collaboratori e tollerano o addirittura promuovono persone malvagie e moralmente corrotte a posti di responsabilità, vuol dire che sono inferiori al loro compito e che sono destinati a cadere.


E’ un pessimo capo quello che non elogia chi lavora bene

Tratto dal Corriere della Sera, in data 3 marzo 2003
- l'Editoriale PUBBLICO E PRIVATO
del Sociologo Francesco Alberoni
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Vi sono persone che non fanno mai un elogio. Quando sono a capo di una organizzazione sono sempre pronte a rimproverare chi, secondo loro, ha sbagliato. Lo fanno in pubblico alzando la voce, in modo da umiliarlo, da farlo sentire una nullità. Ma non le vedrete mai ringraziare, fare un apprezzamento positivo, un complimento a chi ha agito bene, e perfino a chi ha compiuto qualcosa di straordinario. Sono, di solito, personaggi aridi, privi di fantasia e di sensibilità umana, tecnici dei numeri, ma cattivi dirigenti. Altri sono individui frustrati, convinti che tutto sia loro dovuto, mentre essi non devono nulla a nessuno. Altri ancora sono soltanto malvagi che godono nel vedere soffrire. Nella vita quotidiana noi tutti siamo, di solito, cattivi osservatori. Non sappiamo leggere il comportamento di coloro che ci circondano e, in questo modo, facciamo gravi errori di valutazione. Provate a osservare con attenzione il comportamento dei vostri amici, dei vostri colleghi. Vi accorgerete che alcuni di loro non vi hanno mai fatto un elogio, non si sono mai complimentati con voi quando avete compiuto qualcosa di importante e avete avuto successo. Che cosa vuol dire? Da Freud ho imparato che i comportamenti vanno interpretati in modo letterale. Se uno che ritenete amico non vi elogia quando lo meritate, non vi apprezza quando fate qualcosa di bello, allora vuol dire che vi invidia, invidia la vostra bravura e quindi, alla prima occasione, cercherà di farvi del male. All’estremo opposto troviamo invece le persone che elogiano apertamente chi ha fatto bene, chi merita. Alcuni arrivano a complimentarsi persino con gli avversari. Sono individui generosi che, posti in condizioni di comando, stimolano tutti coloro che hanno delle capacità, suscitano entusiasmo e voglia di fare. Sono quindi leader naturali. Però attenti. Anche l’elogio dev’essere sempre usato con misura, con saggezza. Il capo deve saper elogiare chi merita, ma rimproverare chi fa male. Il capo che dispensa soltanto elogi, che premia con troppa facilità, sbaglia. Perché intorno a lui si assiepano individui convinti di valere più di quanto valgono realmente. Se non li corregge, si montano la testa. Alcuni perdono addirittura il controllo e incominciano ad agire in modo dispotico. Come mai? Perché, sentendosi sempre apprezzati, a un certo punto pensano di essere come lui, di avere le sue stesse capacità. Mentre non è vero, non hanno né il suo sapere né il suo equilibrio. Vi è poi chi elogia in modo falso, l’adulatore. L’adulatore vi elogia in modo sperticato, ma non vi ammira, non apprezza veramente il vostro lavoro, le vostre opere. Lo fa per sedurvi, per entrare nelle vostre grazie e poi ottenere qualche vantaggio o, peggio, per farvi del male. Come identificarlo, come distinguerlo da chi fa un elogio sincero? Ascoltando attentamente quello che dice e confrontandolo con i fatti. Ricordate: chi fa un elogio sincero vi conosce, sa esattamente che cosa avete compiuto e ne parla con competenza e precisione. L’adulatore invece è sempre generico. Interrogatelo e vedrete che, in realtà, non conosce a fondo né i vostri pensieri, né le vostre realizzazioni. Perché non gliene importa niente, vuole solo sfruttarvi.


Note

Gli argomenti, sono stati accorpati in tematiche congruenti a prescindere dalla data dell' argomento stesso. La raccolta è stata collocata negli argomenti citati in modo personale e, come tale, opinabile: sono stati tratti dalla fonte citata , cosi' come gli autori degli scritti riportati nella testata dell'argomento.
Per contatti mail:   webmaster@dionisia.com Ultimo aggiornamento: 13-02-2009




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